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uno degli oggetti disegnati da Rizzatto per Ghidini

di Andrea Vittoria Giovannini
 
In un cortile di via Savona sorge l’ex azienda Schlumberg, un complesso recuperato agli inizi degli anni ’90 e trasformata in un centro creativo che riunisce il mondo del design, della moda, della fotografia e della pubblicità. Dentro uno di questi shed che ormai caratterizzano lo skyline seghettato della Milano industriale si trova lo studio dell’Architetto-designer vincitore di 5 compassi d’oro che ha anche firmato il progetto della nuova darsena milanese: Paolo Rizzatto, un uomo minuto e discreto ma con lo sguardo affamato di futuro. Lavora qui dal 2000, occupando questo spazio luminoso con montagne di libri, prototipi, foto e progetti esecutivi appesi a pareti scorrevoli in legno; si siede al centro della scrivania in vetro dove campeggiano due Mac giganti e mi scruta con lo sguardo tipico di un professore universitario. Per fortuna, oggi, le domande le faccio io.
 
Come si è avvicinato al disegno?
Credo che la scintilla sia stata Venezia. Da bambino mi portavano i miei genitori e ogni volta li abbandonavo per osservare la città: ero sopraffatto dalla meraviglia del luogo, dalle volute in marmo e dalle porte attraverso cui scrutare un dipinto del Tiziano o del Tiepolo. Questi input hanno determinato una passione per la forma, per il disegno e per il progetto, insomma mi stavo appassionando all’arte e a tutte le forme. È stato automatico crescere col desiderio di diventare architetto e sono entrato in facoltà negli anni prima del 68 vivendo anche le occupazioni e costruendo la mia coscienza sociale che si è molto alimentata in quel periodo. La partenza era un ideale positivo anche se non ero d’accordo con le derive violente che ne scaturirono. Lì mi sono abituato a lavorare in gruppo e tenere conto dei bisogni degli altri ed è nato il mio approccio etico al progetto che ancora oggi vive in ogni mio intervento.
 
In quei periodi anche l’Architettura era un argomento caldo.
Senza dubbio; gli architetti con la loro opera incidono sulla qualità della vita delle persone e parlare di Architettura significava riferirsi solo all’urbanistica, progettare una casa rappresentava un compromesso col capitale. Il design poi non era nemmeno nominabile, era da borghesi e veniva sentito come un movimento anti-proletariato. Io mi sono sempre nutrito di entrambe le culture quella del progetto e quella del dettaglio: per me una non escludeva l’altra. Però, in momenti di tensione gli estremismi portano a sottolineare certi aspetti e tralasciarne degli altri, diciamo che ho sempre apprezzato i due lati della medaglia.
 
Come si è evoluto quel desiderio di cambiamento?
L’ho riversato in Luceplan, una società che produceva luce. All’epoca non esisteva il light design di cui tutti parlano oggi, semplicemente si arrivava alla fine di un progetto e poi si pensava a dove mettere le lampade quindi abbiamo creato una società per progettare la luce. Lavoravamo più all’estero dove quell’approccio era già una disciplina più digerita, da questi progetti si sono materializzati dei prodotti ben pensati e raccolti in un piccolo catalogo e da lì sono arrivati i primi compassi d’oro e siamo cresciuti diventando internazionali. Per me il centro del progetto è la luce, tutto il resto deve essere poco ingombrante e avere un prezzo accessibile: la bellezza sta anche nella misura.
 
Il mercato di oggi impone pensieri diversi.
L’ampliamento dei mercati fa si che quei punti di vista prima lontani siano vicini. Inizialmente il design italiano era pensato per l’Italia, poi per l’Europa. Non si guardava, se non in maniera molto filtrata, ai mercati arabi o all’estremo oriente. La globalizzazione ha reso il locale globale e ora nella progettazione non si può ignorare questo elemento, per questo il rapporto con altre civiltà è così importante. Oggi devi progettare oggetti accettati e comprensibili da persone diversissime tra loro ma che in fondo tendono a massificarsi. Questo momento storico è molto interessante e credo che sarà risolto dalle nuove leve.
 
Quindi la collaborazione con Ghidini poteva realizzarsi solo in questo periodo.
Ghidini è un’azienda che conosco da tanto tempo. Uno dei motivi per cui Milano è diventata famosa nel design è questa cintura di aziende fatte da gente appassionata che ha messo l’anima nel lavoro e Ghidini è una di queste: sono un’azienda fantastica che ha approfondito le tecnologie della lavorazione dell’ottone. La bellezza del loro mondo sta proprio nel loro mondo. È stato bello lavorare con loro, una delle caratteristiche del disegno italiano è che il produttore entra in prima persona nella discussione col progettista e da questi processi sono nati oggetti che dureranno nel tempo.
 
Dallo sgabello alla città, mi parli del progetto della darsena a Milano.
Una delle cose positive dell’expo è che ha sbloccato il processo per costruire la darsena. Il tema era cibo e acqua e proprio l’acqua è diventato il tema centrale di questo progetto sviluppato in tre anni di lavoro. Sapevo che non dovevo aggiungere altro se non l’acqua, realizzando un progetto che portasse meno segni possibili e che costruisse il meno possibile. Era importante invece recuperare tutti i materiali legati all’ambiente che ci circonda come il laterizio la pietra e il ferro. In quella darsena si sono svolte attività importantissime dal trasporto del materiale per costruire il Duomo o della sabbia per l’edilizia che ricostruì Milano nel dopoguerra, per cui tutti hanno una memoria storica diversa legata a quel luogo come pure sono diverse le esigenze di oggi che vanno rispettate. L’elemento che unisce tutte queste storie è l’acqua. Abbiamo pensato a un luogo dove ci si potesse incontrare senza dover per forza acquistare o consumare, Milano ne è piena. Li si va anche per far niente. Se lei nota infatti moltissimi giovani si incontrano lì e semplicemente si siedono sul bordo che poi, è una vera e propria banchina.

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